La Corte di Cassazione con l’ordinanza 5940 del 23 febbraio 2022 conferma, seppur in un ambito ben delineato, un principio elementare quanto difficilmente attuabile in presenza di servizi pubblici: non deve essere pagato il servizio non svolto o prestato solo parzialmente.
In particolare l’ordinanza della Suprema Corte si riferisce alla riduzione della TARI se il servizio di raccolta dei rifiuti sia stato svolto in modo irregolare, anche in mancanza di una deliberazione sull’agevolazione da parte dell’amministrazione comunale. Il contribuente avrà il solo onere di allegare, dedurre e provare la sussistenza dei presupposti per beneficiare di una maggiore riduzione con la possibilità di graduare ulteriormente la percentuale di riduzione applicabile considerando l’ubicazione dei locali o delle aree oggetto di tassazione all’interno della zona e la distanza dal più vicino punto di raccolta, “in assenza di una richiesta specifica in tal senso o di una prova specifica dei presupposti per applicare la ulteriore graduazione, resta fermo che la riduzione dovrà essere applicata nella misura prevista dalla norma, e che quindi la TARI sarà dovuta in misura pari al 40% della tariffa intera applicabile”.
Un principio importante in questa decisione è che la riduzione tariffaria non è determinabile come risarcimento del danno per la mancata o parziale raccolta dei rifiuti e nemmeno come sanzione per l’amministrazione comunale inadempiente, ma considerando “i costi che il cittadino è tenuto presumibilmente a sostenere per far fronte alla mancata raccolta, laddove il Comune non assicuri in un ambito territoriale della zona perimetrata l’intero ciclo di smaltimento, ma lo garantisca solo in parte”. Il legislatore, con l’art. 1 della legge 147 del 2013, ha ritenuto che nelle aree dove il servizio di raccolta dei rifiuti non sia effettuato, a prescindere dalle ragioni, il tributo possa essere preteso nella misura massima del 40% della tariffa ordinaria con la possibilità di graduare la percentuale proporzionalmente alla distanza dal punto di raccolta più vicino.
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Società Benefit: cosa sono, chi può diventarlo
Cosa sono le società benefit
Introdotte dalla legge di Bilancio 2016 (Legge 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, cc 376-384), le società benefit sono quelle che «nell’esercizio di un’attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse». Tutte finalità che devono essere indicate specificatamente nell’oggetto sociale e che sono perseguite realizzando una gestione che pone in essere un equilibrio tra l’interesse dei soci e quello di coloro sui quali impatta l’attività sociale anche indirettamente.
Chi può assumere la qualifica di società benefit
Possono assumere la qualifica di società benefit, tutte le società disciplinate nel libro V, titolo V e VI del codice civile e quindi tutte le società di persone (società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice) e di capitali (società a responsabilità limitata, società per azioni e società in accomandita per azioni), le cooperative e le mutue assicuratrici. Sono comprese anche le srl semplificate, le quali, nonostante abbiano un atto costitutivo tipizzato che non prevede tale qualifica, possono assumerla con un successivo atto di modifica dello stesso.
La società benefit può costituirsi ex novo, con le medesime modalità previste per le diverse società, oppure a seguito di trasformazione di società già esistente, modificando opportunamente l’atto costitutivo e/o lo statuto.
Al riguardo è da segnalare il primo esperimento in Italia di adozione della società benefit per uno studio professionale: Freebly, che come riporta il sito della società: «è un modello innovativo di studio legale, che eroga un servizio di massima qualità e si distingue sul mercato per competenza e seniority dei suoi professionisti, che operano nel rispetto di solidi parametri di Business Ethics».
Perché le società benefit si distinguono dalle B-Corp
Spesso si tende a sovrapporre il modello delle società benefit con la definizione di B-Corp. In realtà, però, quest’ultima espressione rappresenta una qualsiasi società che abbia ricevuto una certificazione dalla B-Lab, un ente non profit di origine americana, ma ormai sviluppato in tutto il mondo: in Europa è presente come B-Lab Europe, con sede ad Amsterdam, e in Italia gestisce, tramite la propria branch europea e con l’Assobenefit, un sito dedicato (www.societàbenefit.net).
Per ottenere la certificazione B-Lab è necessario seguire alcuni step che sono ben illustrati sul sito dello stesso ente e che possono essere così sintetizzati:
1. calcolare il valore che l’azienda crea per la società: allo scopo si può usare il B Impact Assessment https://bimpactassessment.net/bcorporation, ossia uno tra i più conosciuti standard di valutazione esterno, totalmente gratuito;
2. totalizzare un punteggio di almeno 80 su 200 punti;
3. validare il proprio risultato con B-Lab, divenendo così una B-Corp.
Obblighi comunicativi e informativi
La società benefit deve, quindi, essere amministrata in modo da bilanciare l’interesse dei soci con le finalità di beneficio comune, inoltre al suo interno devono essere individuati uno o più responsabili a cui affidare funzioni e compiti per la realizzazione del proprio scopo. Ogni anno, poi, deve essere redatta una relazione, da allegare al bilancio, che illustra:
• la descrizione degli obiettivi, delle modalità e delle azioni realizzate dagli amministratori per il raggiungimento delle finalità di beneficio comune o delle eventuali circostanze che lo hanno impedito o rallentato;
• la valutazione dell’impatto generato;
• una sezione dedicata alla descrizione dei nuovi obiettivi che la società intende perseguire nell’esercizio successivo.
La valutazione dell’impatto consiste nel valutare cosa genera il perseguimento delle finalità di beneficio comune. Affinché sia garantita l’attendibilità della valutazione questa dovrà essere eseguita utilizzando standard di valutazione esterni (GRI Standards, il Sustainability Index Dow Jones, l’ISO 26000, il B Impact Assessment) che pongano al centro dell’analisi:
• il governo d’impresa, quindi il grado di trasparenza e di responsabilità nel perseguimento delle finalità di beneficio comune;
• i lavoratori, per valutarne le retribuzioni, le opportunità di crescita e la formazione professionale, la sicurezza sul lavoro, i processi di comunicazione interni, la qualità dell’ambiente di lavoro;
• le relazioni con gli altri stakeholder, in particolare con i fornitori, con il territorio e le comunità locali e ogni altra azione di supporto allo sviluppo locale e alla supply chain;
• l’ambiente, per valutare gli impatti della società, con particolare riferimento al ciclo di vita dei prodotti e dei servizi soprattutto per quanto riguarda l’uso di risorse, di materie prime, di processi produttivi, logistici e distributivi.
Oltre a essere allegata al bilancio, la relazione deve essere pubblicata nel sito internet della società, se esistente.
L’organismo preposto alla verifica del raggiungimento del beneficio comune è l’Autorità garante della concorrenza e del mercato che può irrogare alle società benefit sanzioni in materia di pubblicità ingannevole e di violazione delle norme del codice di consumo. Le sanzioni previste vanno dalla semplice ammenda alla chiusura, temporanea o definitiva, dell’attività.
Lo stesso collegio sindacale, considerato il suo ruolo di verifica del rispetto della legge e dello Statuto, deve esaminare e valutare anche la relazione di impatto, così come previsto per tutte le altre informative annuali, in particolare dovrà esprimere un giudizio sull’operato degli amministratori in funzione del raggiungimento dell’equilibrio tra ricerca del profitto e scopi sociali.
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